«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Briganti di casa nostra dopo l'Unità d'Italia


Tutta la provincia di Siracusa per sette lunghissimi anni fu interessata al fenomeno del brigantaggio

“Vogghiu cantari a cannarozzu chinu la vita di Turiddu Giulianu…”, così, su versi di Turiddu Bella, declamava accompagnandosi con la chitarra il cantastorie Orazio Strano per le strade e le piazze di paesi e città a partire dai primi anni ’50.
Lo stesso facevano Cicciu Busacca e gli altri che per oltre un ventennio affascinarono grandi e meno grandi con le loro storie di banditi, di gelosie e di tradimenti. Nel repertorio dei cantastorie di quegli anni, era la “vita e la morte” di Salvatore Giuliano, a fare la parte del leone. Il “re di Montelepre”, diventato un mito, fu il maggiore esponente del ritorno del brigantaggio in Sicilia subito dopo la II guerra mondiale.


Cause del brigantaggio e renitenti
Quasi cento anni prima, dopo l’Unità d’Italia, il brigantaggio nel Meridione ebbe diffusione capillare e assunse proporzioni più allarmanti. Le cause che ne favorirono lo sviluppo sono da individuare in una molteplicità di fattori tra i quali l’arretratezza economica, la ribellione contadina al nuovo ordine borghese, la coscrizione obbligatoria, l’aggravio delle tasse.
In Sicilia a questa ribellione contro lo Stato e l’ingiustizia ricorsero i delinquenti comuni, gli appartenenti alle classi povere, i giovani che volevano sottrarsi agli obblighi di leva. Pitrè ci fa conoscere un espediente messo in atto da quelle mamme che volevano ottenere l’esenzione dei loro figli dalla coscrizione obbligatoria: il giorno della visita appuntavano al vestito del figlio l’ago che era servito, stando alla tradizione in uso, a dare qualche punto di cucitura al vestito di morte di un parente. Quell’ago aveva il potere di fare ritornare a casa il figlio, riformato e libero dagli obblighi militari. Antonino Uccello riferisce pure di una voce assai diffusa, secondo la quale era pericoloso andare come soldati al Nord dove i giovani correvano il rischio di essere evirati. Figuriamoci dunque se gli interessati erano propensi a partire. Cento volte meglio farsi disertori e darsi al brigantaggio. P. Giacinto Farina ci dà un saggio delle scene strazianti relative alla partenza dei sorteggiati per la leva: “Non posso esprimere le lagrime, le voci, le grida delle madri per istrada, e per le campagne. Alquanti partirono per la rivista in Noto, e i nostri furono accompagnati dalla banda… In altri paesi fuggirono tra monti, boschi, ecc.” .

Briganti nelle campagne palazzolesi
Tutta la provincia di Siracusa per sette lunghissimi anni fu interessata al fenomeno del brigantaggio, di cui il maggiore esponente fu Giovanni Boncoraggio di Canicattini. Anche Palazzolo e le sue contrade furono teatro di queste bande di malfattori. Il 9 maggio del 1861 avvenne però, nella nostra città, un fatto di inaudita barbarie: all’uscita del carcere furono uccisi a furor di popolo quattro banditi che dalle finestre del carcere avevano minacciato nefandezze più gravi di quelle già compiute.
Gli obiettivi dei briganti erano i nobili e i ricchi possidenti della zona. L’11 maggio del 1866 una banda composta da Michele Carpinteri di Priolo, Michele Reale (Ruociulu), Salvatore Gionfriddo (Arsenicapatri), Paolo Aliano (Cavaddu), Paolo Gozzo (Sipala) tutti di  Canicattini, sequestrarono il barone Concetto Musso presso la masseria di Cardinale. Gli estorsero 400 onze (4.900 lire) e un orologio d’oro. Qualche giorno dopo, il 29 maggio, al barone Vincenzo Messina, tramite posta, fu richiesta una tangente di 200 onze. 
Stante la situazione di insicurezza e di disagio, nel consiglio Comunale del 25 ottobre 1866, sotto la presidenza del sindaco Guglielmo Messina, fratello del barone Vincenzo, si deplora il fatto che “la presenza pubblica nelle campagne da trista che è stata è divenuta tristissima essendo all’ordine del giorno i sequestri, le grassazioni, i ricatti.” Si auspicano quindi, a livello provinciale provvedimenti urgenti e consoni alla gravità del fenomeno.
  La Deputazione provinciale di Siracusa, allora, per arginare il fenomeno, in data 18 dicembre 1866 mette una taglia di lire mille per ciascuna testa dei sei briganti più famigerati (Boncoraggio, Carpinteri, Carruba, Reale, Gionfriddo, Gozzo). Subito dopo a Palazzolo si costituisce la “Commissione per la repressione contro il  brigantaggio” (Uccello 1972), presieduta dal citato Vincenzo Messina Bibbia, membro della Deputazione provinciale. Il compito del nobiluomo non fu facile come è attestato dalla sequela di ruberie che avvennero anche dopo il suo insediamento e dalle minacce dei briganti: “Signor Barone abbandonate ogni pensiero sul nostro conto, perché arrestarci è impossibile!... Non vi rischiate a fare il menomo passo, né anco a dare qualunque disposizione, perché allora sarà irrevocabile la sentenza vostra! Pensateci! e vi salutiamo. Vostri …”(Uccello 1972). Alla fine il barone l’ebbe vinta, tanto da meritare la benemerenza del Consiglio comunale e il plauso della Provincia e del Ministero. 
Il 30 ottobre 1867 alle ore 20 furono sequestrati il figlio del barone Musso e il fratello, il  sacerdote Don Girolamo. Da contrada Vallefame, dove si trovavano furono condotti in una casetta di contrada Giambra in attesa del riscatto di 2 mila onze. Durante la notte i due riuscirono però a fuggire “invocando Maria e i Santi”.
Fin dal mese di giugno il colera aveva messo in allarme Palazzolo e i paesi vicini. Per tale motivo il signor D. Biagio Politi si trovava nella sua campagna di contrada Santolio da cinque mesi, sicchè “il giorno 19  (novembre) fu assalito da 23 briganti, il capo dei quali era il famoso Boncoraggio di Canigattini. Mentre il Sig. Politi e sua sposa eran nell'atrio, un famiglio aprì il portone e affacciatosi gridò: Misericordia, i briganti. Tosto si videro allo stesso portone le bocche dei fucili...” Il Politi, la moglie, il figlio e tre soldati d'armi, a servizio dello stesso, riuscirono, alla fine, a respingere l'attacco dei malfattori prima dell'arrivo, a scoppio ritardato, della Forza da Palazzolo. Padre Giacinto Farina, cronista dell’accaduto, conclude assai causticamente: "Mischinu cu sta spiranza d'autru".
 Il 21 novembre 1867 segna la fine di una banda di elementi locali che si era costituita da due anni. Facciamo parlare ancora una volta il nostro cappuccino: “Alcuni nostri paesani e vicini vollero pure formare un gregge di Briganti; ed era a capo Paolo Farina Mangiaricotta, uno straniero detto Pedarese, e massaro Sebastiano Puntaloro. Cominciarono a vessare le contrade di Santa Lucia. La mano di Dio gli posò presto sul capo. Mangiaricotta finalmente fu preso, legato e condotto nella Vicaria, ove trovasi attualmente. Il forastiero fu ucciso. Mas° Sebastiano in fondo di carcere e suo figlio oggi si è trovato coltellato nella propria casa di campagna, ove si dividevano il bottino, mangiato dalle galline, dai gatti, e dal cane che ivi trovavansi chiusi con lui. E tutto ciò in poco tempo. Mano di Dio!”.

Corriere degli Iblei , novembre 2002

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