«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

ERAN VENTUNO: Don ‘Mmastianu Culosa (Sebastiano Colosa)

A richiesta faceva da secondo agli autotrenisti quando per legge erano obbligati a viaggiare con accanto un altro autista fornito di patente omologa (“terzo e terzo” veniva chiamata all’epoca). 
E lui, don ‘Mmastianu Culosa, non si sa come dove e quando, aveva sì conseguito la patente di 3° grado, ma la sua presenza nella cabina era solo di facciata, serviva a garantire il rispetto della legge e ad evitare, quindi, eventuali sanzioni all’autotrasportatore. Nessuno gli arrisicava mai il camion; era però un autista di buona compagnia, non si appisolava mai durante il viaggio, anzi dava chiacchiera al compagno e nelle soste ai pontili controllava i turni mentre il “collega” schiacciava un pisolino. 
Era amante dell’acqua e difatti per questo suo vezzo qualcuno lo aveva eletto “ministro della sanità” per “meriti” speciali. In estate, quando “lavorava” come autista di compagnia, alla prima bbruratura che gli capitava, faceva bloccare il mezzo e andava ad inzaccherarsi dentro l’acqua lippusa, vestito, così com’era. Appena usciva grondante dal torbidume e con le scarpe sgrigliolanti, ciac, ciac, ciac, ritornava al suo posto in cabina e, grazie alla buona stagione e al caldo del motore, scarpe e piedi incominciavano ad asciugarsi, e davano inizio ad un processo di distillazione; l’acqua caricata dalle scarpe e ingentilita dall’afrore irresistibile delle estremità, diventava Eau Sauvage, liberando all’interno della cabina voluttuose e impagabili zaffate di fragranza esotica.
Era amante dell’acqua. A tempo di bagni a mare, i quattro cagnulazzi ra Vardia si imbarcavano sulla sua “millecento” strapuntinata (capace di trasportare fino a 12 cagnoli) e don ‘Mmastianu, a pagamento, li accompagnava a Fontanebianche non senza aver prima sistemato sul tetto della vettura le due camere d’aria belle gonfiate: una grande (del Leoncino) e una più piccola. A mare, dopo essersi infilata la cammiritaria grande all’altezza dell’ombelico e quella piccola al collo (sembrava l’uomo della Michelin), anche lui si metteva a mollo, lungamente. Prima di abbandonare la spiaggia per il ritorno, passava alla doccia, come tutti gli altri bagnanti. Di solito si insaponava con l’Olà che teneva sempre in macchina e che gli serviva per sgrassarsi le mani, visto che faceva anche il gommista-biciclettaio, ma in mancanza usava na scagghidda ri sapuni. Quando usciva dalla doccia, sgaddatu a sei e a sette acque, non si riconosceva più, sembrava aver cambiato pelle, quasi bianco, quasi cereo, quasi pulito.
Era sicuramente scuro di pelle ma sembrava più nero di quanto in realtà non fosse, o per una sorta di abbronzatura permanente o perché, con il mestiere che faceva era sempre a contatto con grasso e untume che gli ombreggiavano la faccia, le braccia, le mani, le dita nere e pelose, le unghie nere e lucenti (d’untume). A proposito di unghie (nere), era solito raccontare fra tante mirabilie che in Africa (era stato a Tripoli) gli indigeni erano così bravi, ma così bravi nell’uso della cerbottana da essere capaci, alla distanza di cento metri, di colpire anche n-niuru ri ugna. Anche gli occhi aveva neri, neri e mansueti come quelli di un agnello, i capelli neri, lisci e oleosi di grasso, lo stesso di cui aveva sporche le mani, i denti bianchi. Era alto, robusto, con una pancia aggettante e una bella pappagorgia sotto il mento marcato da una accentuata fossetta nel bel mezzo; un po’ sciamannato nel vestire: in estate una maglietta blu sempre corta che si fermava sopra l’ombelico e con la punta della currìa penzoloni; in inverno portava la tuta, sempre blu e sempre grassa e scurita dall’untume.
In via Nazionale 16, c’era e c’è ancora un piccolo locale di tre metri per cinque. Quella era la sua suite-officina, lì don ‘Mmastianu  c’abitava e ci lavorava: sotto, la bottega, dove “s’ammazzava la vita” di fatica e un cesso nascosto da uno straccio di tendina quasi inesistente; sopra, il sularu, al quale si accedeva per una scala fissa in  legno: letto (prima che si convertisse ai trispiti e alle tavole il materasso era adagiato su vecchi copertoni), fornello a gas, due sedie, un filo da una parete all’altra per posare gli indumenti o stenderli ad asciugare quando gli capitava di lavarli, una pilozza in legno. Tutto qui. Era single ed autosufficiente: sopra dormiva, mangiava e faceva all’amore quando si fidanzava “in casa”; e gli capitava spesso; anzi quando si sentiva ringalluzzito intraprendeva maratone amorose anche di una settimana: si chiudeva con la sua fiamma di turno dentro il suo nido d’amore e non dava conto a nessuno, per nessun motivo. Nel periodo in cui era “fidanzato”, i ragazzi che bivaccavano dentro l’officina si facevano più numerosi: prima o poi la “fidanzata” di turno doveva uscire dalla “stanza da letto”, e nello scendere la scala tra un piolo e l’altro, volente o nolente, era costretta a mostrare il “panorama” ai ragazzi che stavano sotto e con il naso all’insù. 
L’officina, il più delle volte rimaneva chiusa per i numerosi “impegni” di don ‘Mmastianu il quale oltre a fare il mestiere di autista di compagnia, di gommista, di  biciclettaru, teneva (senza licenza, naturalmente) auto noleggio con e senza autista, moto noleggio, affittava mosquiti e biciclette, aggiustava moto, ma soprattutto le sue stesse sgangherate automobili di quarta e quinta mano (Ardea, Balilla, 504, millecento strapuntinata). Molto ambita dai giovani, era la sua 175 Bianchi con forcella telescopica. Per un certo periodo fece anche l’autista di piazza con un side-car Guzzi, con il quale, si era specializzato nel trasportare fidanzati in vena di fuiutini: la donna dentro la navetta, il fidanzato dietro, sul sellino, assieme  a don ‘Mmastianu.
L’officina era piena delle cose più inutili, lasciate alla rinfusa: ruote, copertoni, biciclette appese al muro, a terra, capovolte con le gomme sbudellate, pinze (la pinza era il suo attrezzo magico, aggiustava tutto con la pinza), tenaglie, cacciaviti, a terra, sul bancone, una tanica tagliata a metà per immergere le camere d’aria scoppie nell’acqua fetida di sentina.  
Don ‘Mmastianu non si dava eccessivo pensiero per il futuro: mangiava, beveva, gli piaceva stare con i giovani, e con gli amici, tra questi, don Turiddu Leone, Boncuragghiu, con il quale la sera andava per taverne.
Era anche un tipo distratto, don ‘Mmastianu. Una volta si imbarcò delle “ragazze” nella “seicento” e si recò a Floridia per vedere un kolossal. All’uscita dal cinema la comitiva salì sulla “seicento” per fare ritorno a Palazzolo. L’auto però non era quella di don ‘Mmastiano, era uguale sputata alla sua, ma non era la sua. Fu una nottata da tregenda per il legittimo proprietario e anche per lui: carabinieri, telefonate, contro telefonate, parole grosse.
Un’altra volta, era il giorno in cui doveva convolare a giuste nozze il padre dello scinziatu, don Pippinu Guglielmino buonanima. Il poveretto era appena uscito dal barbiere tutto sbarbato e allicchittiatu: taglio, shampoo, frizione, lacca… e dalla via Nazionale si stava recando a casa per indossare l’abito da sposo. All’improvviso all’altezza del civico 16 si aprirono le cateratte e fu infradiciato dalla testa ai piedi da un violento getto di acqua con scorce di cipolle: “Ma iù m’avia affacciatu e nun c’era nessunu” fu la serafica risposta di don ‘Mmastianu alle vibrate proteste del malcapitato promesso sposo. Don ‘Mmastianu, aveva svuotato distrattamente la sua pilozza in legno dal balconcino del solaio. 
Ma era anche “geniale” don ‘Mmastianu; come quella volta quando verso Bibbinello gli si ruppe il cambio della millecento strapuntinata. Ma lui non si perse d’animo, innestò l’unica marcia funzionante, la marcia indietro, e arrivò a Palazzolo, con un feroce torcicollo e con gli occhi fuori dalle orbite, ma arrivò.

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