«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

I "santuari" dell'oblio: le taverne

Le vecchie taverne di una volta sono in buona parte scomparse e le poche rimaste si affidano ai novelli buongustai e ai nostalgici incalliti. 

PALAZZOLO ACREIDE. Le osterie o taverne o bettole, nella tradizione locale, sono state il punto di riferimento privilegiato dalle varie categorie di maestranze.
Dopo una giornata di faticoso lavoro, la sera si sentiva il bisogno di incontrarsi e di stare assieme davanti ad un buon bicchiere di vino, di scaricarsi per un po' dei problemi quotidiani: "In taberna quando sumus,/non curamus quid sit humus..." recita un inno bacchico duecentesco; è il vino che, quando sei abbattuto e avvilito, ti tira su: "Vinum forte, vinum purum/reddit hominem securum...". Un vero e proprio “modificatore” di coscienza dunque.
Niente di male fin qui. La faccenda si complica quando le lampe che si ingollano in compagnia, diventano troppe. Oggi, cambiate le abitudini, le vecchie taverne di una volta sono in buona parte scomparse e le poche rimaste si affidano ai novelli buongustai e ai nostalgici incalliti. L'ultima spiaggia è il "fai da te" casalingo.
Ma... vuoi mettere un bicchiere di vino bevuto in casa con un bicchiere bevuto nella taverna così gravida di atmosfere e di riti? In questi "santuari" il bere e il mangiare hanno un alcunché di sacrale che segue canoni e cerimoniali tramandati da "culture" ed esperienze ataviche. Il vino si beve lentamente, tutto d'un fiato, con voluttà e raccoglimento, con gli occhi socchiusi per concentrarsi sul sapore: una vera liturgia. E il "tocco" caratterizzato da schermaglie, dispetti, antiche ruggini tra patruni, sutta e aspiranti alla vippita? E' anch'esso una liturgia, rigidissima. 
Nell'osteria, quando già la botte è stata generosa dispensatrice di vino, nell'euforia del momento può succedere di tutto: si diventa allegri e loquaci, si può diventare amici per la pelle ("compari" di bicchiere, e anche di "S. Giovanni frontale"), ma si può anche litigare di brutto (la sfida tra Alfiu e Turiddu ebbe origine proprio nell'osteria della 'gna Nunzia; a Palazzolo, tantissimi anni fa, durante una lite in osteria, ad un avventore fu staccato di netto mezzo naso con un solo morso) 
Sono molti gli espedienti e le tecniche che si mettono in atto quando si è in buona compagnia e si vuole gustare e "portare" bene fino in fondo il vino di taverna, forte, denso e nero, aspro, vino che ti lascia la lappicedda della "rappaglia" in bocca e il segno nel bicchiere, vino che inceppa le lingue, anche le più sciolte. Vino da taglio, di Pachino, 14 gradi e oltre.
Ottimi ciama-vinu, ad esempio, sono le olive nere con pepe rosso, i carduna bolliti o fritti, calacausi e simenza, mentre una buona "base" la dà la patata assuppa-sali, sbucciata ancora calda e intinta a morso a morso in un composto di sale e pepe rosso e nero; poi l'uovo sodo consumato a piccoli morsi ma accompagnato da generose sorsate. I cugnicieddi più robusti sono costituiti da tocchetti di salsiccia palazzolese, dalle polpette di carne (più mollica che carne), dalla carne bollita tagliata a fettine, dalla trippa, dalla gelatina di maiale, dai barbaini (e 'ntuppatieddi) cucinati alla 'mbriaca (rinomate a Floridia le taverne ro zu Pasqualinu, di "Fernando", della za Pudda, e della Panara, veri e propri "santuari" dedicati alla degustazione di questi succulenti gasteropodi), e... guai a non berci il vino sopra: "Cu mangia barbaini e bbivi acqua, sunatici li campani pirchì è mortu..." (maruvaia!) Se si vuole, il vino si può bere anche 'mpetra (a secco "senza “base”) o con la gassosa (ma si rischia la pleurite).

Le antiche taverne di Palazzolo
Verso la fine degli anni '80 del secolo scorso a Palazzolo si registrava l'apertura di molte botteghe di vino, alcune attrezzate anche di fondaco. A distanza di neanche un secolo, viceversa, si è verificata la graduale chiusura delle decine di taverne dislocate in tutto il centro abitato. Nel bene e nel male, queste botteghe hanno assolto il compito di dispensare felicità effimera, ma a buon mercato, a chi ne faceva richiesta. Oggi, ad assolvere ancora a questo compito, a Palazzolo, sono rimaste appena tre o quattro osterie. 
L'insegna della taverna è una lampada rossa; la frasca di edera era riservata a chi vendeva vino di produzione propria, ma non sempre questa regola era rispettata. E per via di questa frasca, a chi ha alzato troppo il gomito si dice che è 'nfrascatu bbonu, ma si dice anche che è paru, paru o allustratu, o 'mbriacu comu 'na signa, o che è 'ncumpagnia, che "ha fatto il pieno", ecc. ecc.
All'inizio di via C. Alberto, nel quartiere di S. Sebastiano c'era l'osteria del signor Santo Monaco, don Santu Gionfriddu, il re dei legumi. Era grande esperto nello scegliere i legumi cucìuli e nel cucinarli; il suo locale era sempre affollato di clienti, e di pentole fumanti colme di ceci e fagioli pronti ad andare a nozze con il limaccioso vino di Pachino. A pochi passi, all'inizio di via Bando, c'era l'osteria "Zazà" del signor Papa Salvatore (don Turiddu ro 'gnù Filici, ultimo cocchiere di Palazzolo). Sempre in via Bando, al crocevia tra il quartiere di S. Paolo e quello di S. Sebastiano, un punto fermo era la taverna del signor Francesco Chiaramonte (don Cicciu u banniaturi), uomo di grande carisma, frequentatissima. 
Ancora in via C. Alberto si trovava la taverna di don Turiddu u Santaru, oste e mediatore, e più avanti l'osteria di Romanello, stagnino e calderaio nonchè oste e produttore di vino. Più in alto, in via Acre, la taverna di Cataldi, Fimminedda, oste e carrettiere-camionista. In via Lombardo c'era donna Angilina a crivara, e in via Ortocotogno l'osteria ra Facciazza (oggi trattoria ziu 'Nzinu); quasi di fronte, in via  Tasso si trovava l'osteria di Turtagna. In via Maddalena l'osteria ri Cutiddina e in via P. Giacinto l'osteria di don Marcello Terribili, Marcellu Salamuni, antesignana del self service: si entrava, ci si serviva: polpetta, vino, gassosa, altro; si lasciava il denaro sul marmo del bancone e si usciva. Don Marcello intanto o era a casa sua lì vicino, o era al bar, o a chiacchierare in piazza, altro (è stata una delle ultime a chiudere).
In via Cappuccini la trattoria-osteria di don Marianu celebrata per gelatina e salsiccia nostrana. In via N. Zocco c'era l'osteria del signor Curcio, poi gestita da Ginu u Calabrisi e in via Duca D'Aosta c'era l'osteria Bufalino (don Cicciu Sparamaschi) con il sottotetto guarnito da sinuose "corde" di salsiccia inghirlandate da infuocati grappoli di peperoncini.
Tra la piazza G. Marconi e la via Giuliano la taverna Alì, Squagghiarota, con gli immancabili arancini. Di fronte al convento, l'osteria di don Santu Mazzaredda. 
Nel quartiere di S. Paolo, in via V. Messina l'osteria di don Angelo "Rita" (faceva anche il carcararu) e sempre sulla stessa via l'osteria-alimentari di donna Raziedda a Monucu vendeva in esclusiva il vino di contrada Casaleddi. In via Garibaldi prima, poi all'angolo di piazza Umberto e poi in via Roma, furoreggiava l'osteria di don Paulu Mazza, sempiterno "santuario" dei Sampaolesi, oggi Osteria del Gallo (continua a  furoreggiare). Sulla stessa via c'era pure l'osteria di donna Vicinzula a Vilasca e in via Garibaldi quella di don Vanni u Rausanu. 
Sempre in via Roma, dopo piazza Aldo Moro, si trovava l'osteria della Sattirana (oggi "Tavernetta"). Questa osteria, ai tempi della ferrovia Siracusa-Vizzini, nella stagione fredda era tappa obbligata per i gnuri che espletavano il servizio di carrozze Palazzolo-stazione e viceversa: all'andata ci si fermava un attimino per bere un bicchierotto, e al ritorno, se il freddo persisteva ed era insopportabile (sempre insopportabile, era ), si faceva il bis.

 Il Corriere degli Iblei, novembre 1998


1 commento:

pasquale leta ha detto...

manca la taverna di ginu u calabrisi pizzo gino.a piazza di san sebastiano vicino a gionfridu
e alla stada di san michele a taverna da manazza.