«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Sdirrimarti ore 24: dal caos all’ordine

“…Ciancitulu, ciancitulu, ‘Uccieri e tavirnari,
Facitici lu rièpitu, Staffieri e manuali…”.


Palazzolo Acreide. Allo scoccare della mezzanotte del martedì grasso finisce il Carnevale e ha inizio la Quaresima.
La Quaresima si contrappone al Carnevale in quanto, mentre quest’ultimo esalta eccessi e trasgressioni, il periodo quaresimale, che inizia il Mercoledì delle Ceneri per durare fino al Giovedì Santo, rappresenta un periodo di digiuno, continenza e austerità (la parola Carnevale deriva probabilmente dal latino medievale carne levare, cioè "togliere la carne" dalla dieta, in osservanza al divieto cattolico di mangiare carne nei quaranta giorni di quaresima). Una volta questa ineludibile cesura era annunciata dai lunghi rintocchi della campana che suonava a mortorio. E’ il momento in cui si passa dalla "gioia sfrenata" alla "penitenza disciplinata”: Alla rottura dell’ufficialità, al disordine rituale temporaneo, subentra la restaurazione dell’ordine permanente.

Il martedi’ grasso
L’ultimo giorno di Carnevale la tradizione vuole che si trascorra in famiglia: “Natali e Pasqua cu ccu voi, U sdirrimarti fallu cu li tuoi”. A questo proposito si racconta una leggenda. Al tempo degli Ebrei l’ultimo giorno di Carnevale cadeva di sabato. Un pecoraio che stava ritornando a casa si rese conto che non sarebbe arrivato in tempo per trascorrere tale giorno in famiglia. Allora si rivolse al Signore e questi gli concesse altri tre giorni (i tre giorni del pecoraio); il  poveruomo così il “martedì grasso” (così detto per l'uso di consumare pasti a base di carne e grassi) poté festeggiarlo a casa con i parenti dove, per tradizione, l’attendevano i maccarruni ri casa nella madia con il sugo di maiale e ‘nciliati nella ricotta,  a sasizza e le ultime "reliquie" del maiale, il tutto accompagnato da abbondanti libagioni e brindisi a ripetizione. Era questo anche il giorno in cui le famiglie più agiate mandavano agli indigenti cibarie di ogni sorta o li invitavano a casa loro.
A Palazzolo il "martedì grasso", si conclude con la terza ed ultima sfilata dei carri e dei gruppi in maschera, con la sagra della salsiccia autoctona, dei cavatieddi al sugo, del crostino di trota,  del cannolo ecc. e con il ballo, all’aperto prima e al chiuso a notte tarda. All’alba, si prendono d’assalto le pasticcerie più rinomate per consumare i cornetti caldi appena sfornati, e magari ci si incontra con chi sorbisce il canonico caffè prima di andare a lavorare. Parecchi decenni fa, sempre a Palazzolo, dopo le sfilate dei carretti, delle lape, delle giardinette scappottabili e dei carri allegorici, al rintocco di mezzanotte, si bruciava il Re Carnevale del Comune. U nannu, con la testa imbottita di petardi, veniva bruciato all'imbocco di via S. Sebastiano. Prima dell’esecuzione la vittima veniva sottoposta a un sommario processo con la presenza del notaio, della morte, del diavolo, ecc.  quindi il "Cicciu Strattu" di turno, nella parte della madre di Carnevale, entrava in scena piangendo e gemendo, confortato ora da una "riputatrice", ora da un’altra e, tra pianti, lamenti e strepiti, si celebrava così la fine con il rito della cremazione. In questa circostanza, a Chiaramonte Gulfi si cantava  il seguente epicedio: "Cantannu va la piula Supra li campanara,… Ciancitulu, ciancitulu Ccu ciantu scunzulatu: Lu beddu Carnuvali, Lu Patri e ‘ntaulatu… Ciancitulu, ciancitulu, ‘Uccieri e tavirnari, Facitici lu rièpitu, Staffieri e manuali…” (S. A. Guastella, 1887).

Quindi si continuava a ballare nei veglioni all’aperto, al cinema Sardo, all’Odeon, alla Spelonca e in tutti i locali disponibili fino all’alba. In alcuni centri addirittura il divertimento continuava il mercoledì delle Ceneri  con l’appendice del Carnevalone: la gente in questo giorno si recava in campagna  per consumare quello che era avanzato del baccanale carnevalesco.


Il mercoledi’ delle ceneri
Il rito della cremazione del "Nannu" segna la fine del caos e l'inizio dell'ordine, preannunciato dall'entrata della Quaresima, incarnata a sua volta, secondo la tradizione popolare, da una vecchia magra e dimessa. In certe zone il Mercoledì delle Ceneri la “vecchia di quaresima” viene esposta appesa ad un filo teso sulle finestre delle abitazioni. Ai piedi c’è un’arancia o una patata con infilate sette penne di gallina. E’ usanza ogni sabato a mezzogiorno togliere una penna. Il sabato santo si strappa l’ultima penna e si brucia il fantoccio.
Dalla mezzanotte del martedì grasso, dunque, ha inizio la Quaresima, tempo di penitenza e di preghiera. Quando la Chiesa, fin dai suoi primissimi albori, prese coscienza che la Pasqua costituiva il vertice sommo della sua vita, la solennità delle solennità, introdusse un periodo di quaranta giorni (sull’esempio di Mosé  ed Elia, i quali dopo un digiuno di quaranta giorni furono ammessi alla visione di Dio) di intensa preparazione a tale solennità, un lungo periodo di serio impegno ascetico.
Ancora oggi, dunque, la Chiesa, nel primo giorno di tale tempo, invita tutti i cristiani ad un atto di umiltà con l’imposizione delle ceneri (ottenute dai rami di olivo benedetti l'anno precedente nella domenica della palme): durante la celebrazione della messa, il sacerdote mette un pizzico di cenere sul capo dei fedeli accompagnando il rito con la seguente formula: “Ricordati che sei polvere e polvere ritornerai” oppure “Convertiti e credi al vangelo”.
L'imposizione delle ceneri sul capo dei fedeli risale al Vecchio Testamento, ed è una pratica assunta dal rituale ebraico. Certamente dall’VIII secolo la comunità cristiana di Roma, per tradizione, faceva una processione recandosi alla prima messa di Quaresima cantando un’antifona che conteneva le parole “Vestiamoci di sacco e copriamoci di cenere”. Sempre in epoca medievale per i penitenti pubblici era previsto un rito particolare: “Nel primo giorno della quaresima - scrive il nostro Alessandro Italia - tutti coloro ai quali era stata imposta penitenza pubblica dovevano presentarsi davanti la porta della cattedrale, al vescovo, sacco induti, nudis pedibus, vultibus in terra prostratis. (il sacco era una sopraveste sordida, il cilicio, un tessuto di lana caprina a forma di camicia che si portava sulla carne nuda). Il Vescovo li introduceva nella chiesa… imponeva sopra di loro le mani, li aspergeva di acqua benedetta, e dopo la cenere metteva sul loro capo una corona di spine, detta anche cilicio e diceva che come Adamo fu cacciato dal Paradiso Terrestre, così essi dovevano essere cacciati dalla Chiesa …” (in alcuni casi anche l’altare veniva ricoperto di sacco).
Quando poi il papa Urbano II, nel Sinodo di Benevento del 1091, prescrisse tale rito penitenziale per tutti i fedeli, tutta la Chiesa lo fece osservare e continua a farlo ancora oggi tenendo conto degli aggiornamenti che si sono succeduti nel corso dei secoli.

 IL CORRIERE DEGLI IBLEI, febbraio 2003.

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