«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Il 1° settembre a Palazzolo san Ciliu (sant’Egidio), ovvero quando si teneva a fera i l’uommini

 

Ancora fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, il contadino, proprietario di 3-4 ettari di terreno, di un mulo o di un asino e di qualche bovino, riusciva a lavorare in proprio collaborato dalla moglie e dai figli maschi (figghi màsculi, cannizzi addritta); in caso di bisogno reclutava a giornata qualche bracciante (jurnataru). I massari, invece, proprietari di stacchi di terra più estesi con diversi equini e più bovini necessitavano di manodopera salariata (jarzuni) allocata ad anno (adduvati) per procedere ai lavori più faticosi della campagna.

Poi, l’abbandono parziale delle nostre terre e l’uso sempre più diffuso delle macchine agricole, fecero si che venisse meno l’esigenza di questi garzoni annaluori e quindi, loro malgrado, diventarono iurnatari. Di mattina presto, zappa in spalla, si recavano in piazza e mettevano a disposizione la loro manodopera per uno o più giorni accordandosi senza tante discussioni.

Anche la contrattazione dei salariati annuali avveniva sempre nella piazza principale del paese ma una volta l’anno. Poiché dopo la chiusura dei lavori agricoli, fissata al 15 agosto, scadevano i contratti colonici, massari e jarzuna in un giorno stabilito si incontravano per   confermare o rinegoziare la stipula di un nuovo contratto.

A Ragusa, ad esempio, a fera i l’uommini (la fiera degli uomini) si teneva il giorno di ferragosto: “In questo giorno v’è in Ragusa una “fiera degli uomini”, in cui tutti i contadini che servono ad anno, la sera del 14 tiran fuori il chiodo (scippuni u cavigghiuni) dove in campagna appendono le loro bisacce [1].

A Palazzolo Acreide, invece, questa “fiera” si soleva tenere il 1° settembre, giorno di san Ciliu, (sant’Egidio), in Piazza del Popolo, la piazza centrale: “Tutti i contadini che sono senza patruni, appena spuntano i primi albori del primo Settembre, si riuniscono nella piazza più grande del paese. Vestono i migliori abiti… In piazza vanno pure coloro che hanno bisogno di un personale di campagna: i fattura e i massari…” [2].

In questa singolare fiera, accompagnati dal padre, si recavano in piazza anche “lavoratori” bambini di appena sei, sette anni di età, ancora assonnati, stralunati: “Tanuzzu stava rigido e silenzioso. Aveva dentro una paura mortale, ma non voleva che gli altri se ne accorgessero, soprattutto suo padre. Indossava una giacca nera che ormai gli stava corta alle maniche; gli avevano messo un paio di vecchi pantaloni di suo fratello, una camicia a righe e anche una cravatta nera, con un grosso nodo. La madre gli aveva pettinato i capelli con l’acqua…” [3].

Ogni “piazza” aveva tariffe e regole proprie e i contratti erano diversificati a seconda dell’età, del fisico e delle capacità del lavoratore. Una stretta di mano sanciva l’accordo.  

 

Quattro salme e quattro tomoli

A Palazzolo, un carusu di circa dieci anni, intorno agli anni Cinquanta percepiva mediamente un compenso annuo in derrate (paraspuòlu) di 12 tomoli di frumento e una mancia mensile pari a due tomoli (o in cambio, il pane necessario al fabbisogno personale).

I jarzuna, oltre al salario annuale in denaro, ricevevano pure 2-3 salme di paraspuòlu e tre quattro tomoli di mancia - sempre in frumento - a seconda delle capacità o in rapporto alla prole da mantenere. Il top era la formula “4 a 4” (4 salme e 4 tomoli), riservata agli elementi più capaci e più affidabili.

A fine anno, inoltre, il padrone - volendo - poteva anche elargire un compenso extra, sempre in natura (olio, vino), direttamente proporzionale alla qualità e alla quantità del lavoro svolto dal dipendente.

Nel patto si stabiliva pure il numero di fasci di frasche che il garzone, mensilmente, aveva facoltà di portare a casa: la quantità delle frasche dipendeva dal terreno se era più o meno alberato.

Verso mezzogiorno la Piazza incominciava a spopolarsi, e “…la sera, poi, i fortunati che si sono adduvati (allogati) si riuniscono in gruppi di otto, dieci o più, e facendo baldoria, caracollano per le vie del paese. Fino a tarda ora in varie stanze a pianterreno c’è occasionalmente ‘u purpu, cioè frischiettu e tammuru. E ivi danzano i contadini e fanno coi i piedi i più difficili ghirigori e le più arrischiate pirolette” [4].

 

Ri suli a suli

La giornata lavorativa iniziava a spunta e suli, cioè prima dell’alba, e d’estate finiva a sera inoltrata (sedici ore di lavoro); il patto era chiaro: ri suli a suli (da sole a sole). Quando era quasi il momento di levare mano tra il padrone e il garzone iniziava una schermaglia a distanza tra il serio e il facèto, un tuppertù fatto di botta e risposta. Il garzone non potendone più per la fatica e per l’ora tarda, lanciava il suo messaggio: “Lu suli è- bbaneddi vaneddi, / la me pattruna ha- mminisciatu i scureddi (Il sole è per i vicoli, / la mia padrona ha scodellato la minestra)”. Il padrone, lasciando intendere che non era ancora arrivata l’ora di smettere, pronto ribatteva: “Lu suli è-mmura mura, / travàgghia, curnutu, c’ancora è ddaura (Il sole è sui muri - cioè ancora alto - / lavora, cornuto, ch’è presto ancora)” [5].

Dopo una lunghissima giornata di estenuante lavoro e dopo una frugale scodella di maccu, il garzone andava finalmente a dormire. D’estate si coricava nel fienile e d’inverno nella stalla, sopra la tuccena, un soppalco di pietra reso meno ostile da una manciata di paglia. Il fiato degli animali e il calore che emanava dagli escrementi depositati sul calpestìo (‘nciancata), servivano a stemperare un po’ il freddo secco e tagliente del lungo inverno ibleo e a conciliargli il sonno, topi permettendo.

 

Carni vinnuta

I jarzuna, a causa delle loro condizioni di vita e di lavoro si definivano carni vinnuta: per un anno intero affittavano (vendevano) la loro persona, erano all’assoluta mercé del padrone

Una volta al mese, tuttavia, il garzone usufruiva di una breve licenza, a vicenna, per recarsi in paese; partiva di sabato sera, e il lunedì ai primi albori, doveva essere già sul posto di lavoro.

Gli sposati, a mo’ di concessione, si potevano recare in paese ogni quindici giorni per dormire con la moglie, a ‘ncuntratura: partivano la sera del sabato o della domenica, per rientrare sempre e comunque l’indomani mattina, al canto del gallo.

A vicenna a fistilitati - della stessa durata di quella mensile - veniva concessa in occasione delle feste principali: Natale, Pasqua, la ricorrenza del santo patrono. Per quest’ultima i Palazzolesi potevano scegliere tra S. Paolo e S. Sebastiano (10 agosto), a seconda del Santo di cui erano devoti. Il più delle volte, però, venivano in paese a conclusione dell’ottavario, poiché il giorno della festa era riservato al padrone, e si sa, la campagna non poteva rimanere incustodita nemmeno per poche ore.

 

Ai nostri giorni, l’agricoltura moderna, razionale e intensiva, privilegia le pianure e le “marine” e riesce a far, produrre i terreni ogni anno, con la rotazione e con estesi impianti destinati a colture protette.

Molte delle campagne iblee, adagiate sulle pendici di Monte Lauro, un po’ brulle e pietrose difficili da coltivare e scarsamente redditizie, sono state abbandonate da un bel po’: massari e iarzuna - finalmente - sono diventati dipendenti delle raffinerie e delle megacentrali disseminate lungo i dieci chilometri di costa che vanno da Siracusa ad Augusta per poi diventare magari cassintegrati e quindi ritornare al primo amore per “passatempo”.

E a Palazzolo il 1° settembre (san Ciliu) è ormai diventato un giorno come gli altri, senza particolari etichettature e tradizioni: il 1° settembre è sant’Egidio, protettore dei poveri, dei cavalli, delle pecore, ecc. ecc.


CAMMINO, settimanale di informazione e di opinione, 22.9.1991.

 

NOTE

[1] G. Pitrè, Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. III, (1a ed. 1887-1888), Palermo, “il Vespro”, 1978, pp.107,108.

[2] G. Pitrè, Feste patronali in Sicilia, Palermo 1900, ediz. anastatica, Bologna, Forni editore,1980, pp. 253,254.

[3] G. Fava, Prima che vi uccidano, Milano, Bompiani, 1976, p.60.  

[4] G. Pitrè, Feste patronali… op. cit. p.256.

[5] A. Uccello, Risorgimento e società nei canti popolari siciliani, Catania, Pellicano libri, 1978, p. 21. Una variante si trova in G. Pitrè, Usi e costumi… vol. III, op. cit., p.110.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Mi chiedo... che differenza c'è tra questa bella descrizione e un geroglifico del tempio di Luxor?

Lisa Magrin ha detto...


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