«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Correva l’anno… 1964. Paolo Tarzan, gli Jivaros e la testa umana rimpicciolita (tsantsa)

Paolo Tinè, del ramo dei “Cazzarelli”, da ragazzo era conosciuto come Paolo Tarzan per la grande abilità di arrampicarsi sugli alberi tale e quale una scimmia, vale a dire come Tarzan, l’uomo scimmia per antonomasia.



Sotto le finestre sud del plesso scolastico delle elementari di Piazza Biblioteca, di fronte alla porcilaia dove don Nannino tirava su i suoi maiali a forza di lavatura, cioè con l’acqua di cottura della pasta della refezione scolastica, una volta esisteva un gigantesco albero che in altezza superava le finestre del 1° piano. Su quell’albero, Paolo, tutti i giorni all’uscita da scuola, dava dimostrazione della sua destrezza arrampicandosi fin sulla cima e, saltando da un ramo all’altro, emulava le gesta di Tarzan, accompagnate, naturalmente, dal mitico urlo.

Le stesse prodezze le compiva quando si andava a favaragghi in compagnia e comunque quando si imbatteva in un albero qualsiasi su cui potersi arrampicare.  

Chiusi i conti con la scuola, dopo qualche anno, Paolo emigrò in Venezuela e andò a lavorare presso l’impresa movimento terra del fratello di stanza nella foresta amazzonica. Per tantissimi anni non se ne seppe più niente.

 

Un giorno, a sorpresa, gli amici di un tempo ce lo siamo ritrovato davanti e con le tasche gonfie di soldi. Aveva lavorato sodo ed era riuscito a mettere da parte un bel malloppo per una lunga e agognata vacanza nella sua Palazzolo. Era il 1964. Comprò una “Giulietta” blu di seconda mano, l’attrezzò di un mangiadischi Philips nuovo fiammante e… un giorno sì e l’altro pure, si iniziò a scorrazzare in lungo e in largo per strade e vicoli di Palazzolo e anche in trasferta e non solo nei paesi limitrofi.

Paolo ci parlava del suo lavoro, di spazi sconfinati e inestricabili all’interno della foresta, di alberi giganteschi imprigionati dalle liane, di animali di tutte le specie, degli indigeni e di strani riti tribali di alcune tribù. Ci raccontava, insomma, di tutto quello che aveva visto con i suoi occhi, condito sicuramente da fantasiose mirabilie che, a me, a Pippo, a Salvatore, a Vituzzu, e a tutti gli altri della combriccola, ci deliziavano.

Per avvalorare la sua narrazione, una volta si presentò con una piccola carcassa in pelle riproducente le fattezze di una testa umana. Rimanemmo sorpresi per la perfetta somiglianza con una vera testa in miniatura, sembrava clonata. “Questo cimelio non è un imbroglio”, ci disse Paolo, fattosi serio “questa qui è una vera testa umana rimpicciolita in carne e ossa, anzi in sola pelle, senza ossa”.

Rimanemmo sconcertati e senza parole.

Paolo a modo suo ci spiegò qual era il procedimento per la preparazione delle tsantsas (così si chiamano queste teste mummificate): ci raccontò che quel souvenir gliel’aveva regalato un suo amico che era stato a lavorare nell’Alta Amazzonia dove gli indigeni Jivaros ancora mantenevano ben viva quella “bella” tradizione. E alla fine, per farla breve, Paolo cedette a me quell’inquietante “ricordino” (vedi foto) che ancora conservo gelosamente seppur con qualche perplessità.

Effettivamente si tratta di una vera rarità, macabra rarità, ma rarità. Cionondimeno queste teste ridotte e mummificate sono note agli antropologi studiosi di mummiologia e qualche esemplare difatti si può sempre trovare nei musei che si occupano di questo particolare settore.

 

Gli indios Jivaros

L'idea che spinge un Jivaro alla caccia della testa di un nemico è quella della vendetta, una rivalsa che servirà a placare lo spirito della persona da vendicare. Solo così lo spirito del vendicato, secondo un'antichissima concezione animistica che poneva nel cranio la sede dell'anima, potrà riposare in pace anziché aggirarsi intorno tormentato.

Gli indios Jivaros abitano una sterminata e lussureggiante foresta che occupa la parte alta dell'Amazzonia in Sud America e che si estende sino agli altipiani che precedono le Ande, ai confini con il Perù e l'Ecuador. Vivono in clan e ogni clan ha un leader che si identifica nell'uomo più coraggioso e che ha, manco a dirlo, più “teste” all'attivo. Gli Jivaros sono per l’appunto cacciatori di teste che poi rimpiccioliscono e mummificano: a questa “specialità”, niente affatto allegra, è dovuta la loro fama.

Questi figli della foresta, vivono in un constante stato di diffidenza e di sospetto. Gli agguati, le vendette se li tramandano di generazione in generazione e la conclusione è una sola: la morte del nemico. Si pianifica l’imboscata e la vittima, quando meno se l'aspetti, viene uccisa con l'unico scopo di recuperare la testa tagliata.

Attualmente sono circa 100.000 i componenti di questa tribù. Ci sono motivi fondati, per ritenere che fino agli anni Sessanta del secolo scorso (è di quel periodo la tsantsa in mio possesso) abbiano tenuto viva questa tradizione e che forse ancora oggi, seppur eccezionalmente, la pratichino nonostante le pesanti pene imposte dal governo dell'Ecuador.  

 

Le operazioni degli Jivaros per mummificare e ridurre il cranio richiedono circa sei giorni, ciò non tanto per le cerimonie rituali connesse, quanto per il tempo necessario alle diverse fasi di trasformazione.

Gli Jivaros, scelte le vittime sacrificali, le decapitano alla base del collo e con la loro macabra preda ritornano al villaggio per iniziare subito il rito di mummificazione - rimpicciolimento della testa. 

Praticano un’incisione verticale che va dalla nuca al limite superiore della fronte. Svuotano il tutto, rovesciano la pelle come un calzino, e con delle fibre vegetali cuciono le palpebre e le labbra quindi rivoltano di nuovo la pelle e ricuciono l’incisione trasversale. Questa chiusura ha un valore oltre che rituale, religioso: lo spirito malefico dell’avversario viene imprigionato dentro la sua stessa testa e non potrà più recare danno a nessuno. I capelli, lunghissimi, sono trattati con la massima cura.

Terminata questa operazione iniziano le danze rituali accompagnate da un’abbondante libagione a base di bevande fermentate.  

A seguire si mette a cuocere la testa in acqua con aggiunta di cortecce ricche di tannino e la si fa restringere fino a quando raggiunge un terzo della dimensione originale. Viene poi estratta dall'acqua bollente con un bastone e appesa ad asciugare e a seccare.

Per una ulteriore riduzione del trofeo, che deve diventare quando un pugno o ancora meno (la mia ha la dimensione di un piccolo mandarino), si servono di ciottoli roventi progressivamente sempre più piccoli che si fanno roteare velocemente all’interno dell’involucro per cauterizzare eventuali brandelli di tessuto. Durante questa seconda operazione, con una pietra piatta e liscia non riscaldata, cominciano a sfregare la superficie esterna del viso in modo da ridare ai lineamenti la forma primitiva. È questa una fase assai delicata che richiede molta attenzione perché il disegno perfetto dei lineamenti è prova della bravura e della riuscita dell'opera.  

Infine introducono della sabbia calda all’interno della testa agitandola in modo da farla penetrare in ogni anfratto, ripetendo il trattamento diverse volte. In questa fase tutti i tessuti seguitano a ridursi contemporaneamente e armonicamente fino a che tutta la testa si restringe in maniera uniforme ed equilibrata. Il volto così mantiene immutata la sua espressione fisionomica, e se vogliamo, anche una parvenza di vita.

La perizia degli Jivaros viene valutata in base a siffatto risultato. Alla fine, in cima alla testa, se si vuole essere spocchiosi, viene praticato un foro in cui un laccio infilato permette al proprietario della tsantsa di portarla al collo durante le cerimonie tribali.

 

 

Per non mettere limiti alla Provvidenza e alla creatività, sulla falsariga della "esaltante" attività degli Jivaros testè descritta, è stata inventata una macchina chiuditrice per cartoni che si chiama proprio Jivaro®: marchio registrato! Qual è la peculiarità di questa macchina? Indovinate! Adatta le dimensioni dei cartoni, alle misure del prodotto contenuto. Li restringe e li rimpicciolisce, in parole povere, ma senza mummificarle. Brevetto a parte, mai il nome di un marchio registrato (Jivaro®) fu così azzeccato. Quando si dice…

 

 Iblon, giornale online, novembre 2012

1 commento:

Lisa Magrin ha detto...


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