«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

La ferra 'nsigna littri, nomi e verbi.

 Quando a scuola si usavano le bacchettate


PALAZZOLO. I severi maestri elementari dell'antica Roma tenevano sempre a portata di mano una bacchetta di ferula appositamente per le punizioni corporali. Era una prassi batterla sulle mani e sulle gambe dei piccoli scolari per porre rimedio alla disobbedienza e all'indisciplina. Tale "pedagogia del bastone", risalente al tempo delle guerre puniche, si è perpetuata fino ai primi decenni del secolo appena trascorso e in alcuni casi anche a ridosso degli ultimi. Tra quelli che ci leggono sicuramente ci sarà qualcuno che si ricorda ancora del suo maestro soprattutto perchè, spesso e volentieri metteva in pratica questo arcaico ma convincente "metodo educativo".

 

Le scuole di una volta

La lezioni scolastiche nella Roma repubblicana erano tenute in piccole botteghe o sotto i portici delle piazze. Gli scolari sedevano su sgabelli e scrivevano su tavolette spalmate di cera usando una cannuccia detta stilo. Leggere, scrivere e far di conto era ciò che si imparava dal litterarius. Più o meno le stesse nozioni venivano insegnate durante il monachesimo (IV sec.), si dava però più spazio alle preghiere e al catechismo; in epoca feudale, i figli del signore imparavano a leggere e a scrivere dal cappellano ma la loro educazione era soprattutto pratica e riguardava, in particolare, l'uso delle armi e l'abilità necessaria per condurre avanti la vita del castello. Sempre gli uomini di chiesa nelle epoche successive ebbero il merito di continuare a diffondere la cultura e l'istruzione sia nelle classi nobili come pure tra le classi meno abbienti.

Ad iniziare dalla prima metà del secolo XIX ebbero grande diffusione le scuole "lancasteriane" fondate sul mutuo insegnamento: tra gli scolari i più capaci (monitori) facevano da maestri a chi lo era meno. Il maestro, seduto in cattedra, aveva la funzione di coordinare, controllare, e somministrare personalmente le punizioni.

Nel 1818 la scuola elementare era obbligatoria e gratuita solo nel Lombardo-Veneto. Specie nel meridione i contadini non credevano che fosse necessario mandare i figli a scuola: i ragazzi a 12 anni e anche meno venivano avviati al lavoro nelle botteghe artigiane o adduvati in campagna come jarzuna (il giorno in cui si stipulava il contratto annuale tra padrone e salariati a Palazzolo era fissato al 1° settembre, a Ragusa nel giorno dell'Assunta): in questo modo le famiglie povere non solo si sbarazzavano di un  vorace  mangiatore ma incameravano pure un corrispettivo in natura (grano). Per le femmine la scuola era giudicata addirittura pericolosa per la loro moralità. I ricchi, invece, continuavano a fare istruire i loro figli da un precettore privato.

La prima norma organica nella storia della scuola elementare obbligatoria nacque nel 1859, allorchè il governo piemontese votò una legge sull'istruzione che prese il nome di "Legge Casati", considerata la "Magna Charta" del diritto scolastico italiano. Da questa legge comincia la vera storia della scuola primaria che cambierà e si evolverà secondo il clima ideologico, politico e culturale del tempo.

Per quanto riguarda le nostre latitudini è da rilevare tuttavia che, a due anni e più dall'entrata in vigore di questa legge, in molti comuni non esistevano ancora nè maestri nè scuole o, dove c'erano, erano poco frequentate, stante il fatto che l'istruzione non era considerata importante.     

Anche dal punto di vista dei locali e delle suppellettili le scuole postunitarie erano ben diverse dalle attuali: non esistevano appositi edifici, non c'erano i banchi lucidi e lavabili, mancavano i servizi igienici, i riscaldamenti. Le aule, di fortuna, quasi sempre erano inadatte, prive di luce, malsane, umide. Gli scolari venivano ristretti in questi locali angusti, senz'aria, pigiati l’uno sull’altro in numero di 60, 70 e oltre, per lunghe ore e restavano assiderati d'inverno e soffocati dal caldo in estate.

  

I castighi

Questo tipo di scuola era fortemente selettiva e si reggeva sul principio dell'emulazione: premi per i più bravi, ma soprattutto castighi per i negligenti e gli indisciplinati. Per una inadempienza disciplinare o per scarso profitto, oltre alle note sul registro e alle scene di dileggio, fioccavano soprattutto le punizioni corporali volte a mortificare in modo spietato i poveri ragazzi, anche per colpe non proprio rilevanti. La rinuncia a questi "mezzi di educazione" da parte del maestro poteva apparire segno di debolezza e di inettitudine dello stesso.

Una scuola, dunque, autoritaria e povera di contenuti ma dotata di un'ingegnosa serie di castighi che venivano inflitti in modo direttamente proporzionale alla gravità delle mancanze commesse dagli scolari: più gravi le mancanze, più gravi le punizioni. Gli stessi genitori nel raccomandare i loro figli ai maestri li pregavano di non risparmiargli le punizioni corporali; l'opinione ricorrente era che "i ragazzi sono fatti come gli asini: picchiateli e vanno; non picchiateli e non vanno" (Costa, 1990). Morale: non è il maestro che insegna ed educa ma il bastone: "La ferra 'nsigna littri, nomi e verbi".

E l'"arma" più comune in mano agli insegnanti era proprio la ferula, un vero e proprio strumento di lavoro e, come tale, i maestri ne tenevano da parte sempre un'abbondante scorta.

Il ritardo o una lieve indisciplina di solito erano puniti con il far mettere l'alunno in ginocchio con sotto le sue stesse mani oppure dei ceci o delle noci. 'A sputazza o nasu veniva messa (su ordine del maestro) dall'alunno più bravo al compagno meno bravo, intingendo la punta dell'indice in bocca e toccando con la saliva il naso del negligente. Allo scolaro svogliato e disattento veniva imposta la mitra di carta con disegnati gli orecchi d'asino e la scopa in mano, quindi lo si costringeva a girare nei locali scolastici seguito dallo sfottò dei compagni. Ai chiacchieroni e ai bugiardi veniva applicato alla bocca il bavaglio di ferro o di oleandro (si badi: la pianta è tossica, in ogni sua parte!), laddove ai piccoli bestemmiatori veniva punta la lingua con un grosso ago.

I colpi di ferula (a volte sostituiti dalla riga) nella palma della mano (palmate) comunque erano i più praticati, i più efficaci, i più sbrigativi. Venivano somministrati sempre in numero pari e a mani alterne per dare modo alla mano colpita di raffreddarsi. E guai e ritirare la mano o a tenerla bassa: la serie di palmate veniva raddoppiata. C'erano pure maestri forniti di frusta e anche di lunghi virgulti per potere comodamente colpire il reo dalla cattedra.

Altra punizione era quella del cavallo che consisteva nel somministrare colpi di ferula nel deretano del ragazzo, aggrappato alle spalle di un compagno di classe. Seguivano schiaffi, schiaffoni, strapazzate varie e altri marchingegni, secondo l'inventiva e i gusti del maestro.

La crudeltà di siffatti "mezzi di educazione" a poco a poco incominciò ad attenuarsi ma, anche se in seguito furono proibiti dai regolamenti e condannati dalle autorità superiori, questi "metodi" ebbero bisogno di oltre un secolo per scomparire definitivamente o quasi. 

 

IL CORRIERE DEGLI IBLEI, novembre 2001    

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