«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Paolo Giliberto. Dall'Altipiano Ibleo ai Berberi del Nordafrica

Si scende a lume di candela e a piedi scalzi, attraverso stretti cunicoli, per arrivare ad oltre 100 m di profondità.

Sin dalle epoche più remote la ceramica è stata una delle prime manifestazioni artistiche dell'uomo grazie all'abbondanza della materia prima che le ha garantito ampia diffusione specie tra i popoli sedentari e dediti all'agricoltura. 

Nel tempo, poi, ogni civiltà ha elaborato per le necessità quotidiane e cultuali vasellame e statuette votive sui quali ha impresso i propri caratteri originali, validi anche per   riconoscere storia e costumi.

Paolo Giliberto, titolare del laboratorio di ceramica a Palazzolo, è il classico tipo di siciliano intraprendente e caparbio che va fino in fondo quando lo decide. Tra le sue mani prende forma e vita, e il cuore dolce della bianca pietra iblea e la zolla informe di creta lambita da solari policromie. 

Entrare nella sua bottega significa entrare in un mondo che avevamo scordato: un mondo di argilla che ti riaccende la memoria e ti riporta indietro nel tempo, all'interno delle nostre case contadine e popolari con le scansie piene di ceramiche d'uso; e, per associazione, rivedi pure la Casa-museo di Antonino Uccello con le pareti tappezzate di piatti e fiancuotti.

La ricerca nell'Altipiano Ibleo

La selezione tipologica di questi manufatti è il risultato di una accurata indagine sul campo di Giliberto. Armato di macchina fotografica e di carta e penna, è andato in giro per campagne e masserie alla ricerca di notizie relative all'uso e al nome (nella parlata locale) delle terrecotte e delle ceramiche tradizionali dell'Altipiano Ibleo. E così poco alla volta il suo negozio si è arricchito di una vasta gamma di manufatti fittili di origine calatina che, con le opportune varianti, caratterizzano e rispettano il gusto e lo stile della nostra area. È chiaro che oggi questi oggetti sono diventati suppellettili ornamentali che fanno folklore e turismo, tuttavia, oltre a questa, hanno la funzione di cui s’è detto: servono a far conoscere alle nuove generazioni i costumi e le usanze dei nostri padri.

A tale scopo accenniamo ad alcuni di questi “souvenir” riportandone il nome locale e l'uso: u bainu, per lavare i piatti e le stoviglie; u bainicieddu ro cruscenti; u culapasta; a cannata, per il vino; a saimera, per lo strutto di maiale, poteva anche servire da salera; u maritieddu, surrogava il calore del marito (nelle fredde notti d’inverno) grazie all'introduzione di acqua calda o sabbia;  "marito di creta" lo chiama P. Giacinto Farina nella sua "Selva": "Vi è l'uso in Palazzolo presso delle donne volgari, invece dello scaldino di rame ne usano uno di argilla grossolana..."; u ciascu, per modeste quantità di vino da trasportare: è una brocca leggermente schiacciata con manici ad anelli entro cui passa una corda che serve per ancorarlo al basto dell'asino; a cannata c'o 'ngannu (bevi se puoi), si usava in occasioni particolari: per Carnevale, per il lunedì di Pasqua, ecc.: chi conosceva il trucco trincava senza sbrodolarsi, in caso contrario si infradiciava di vino; a  sbrunia per i pomodori secchi, per l'estratto, per i capperi, per il miele (per le acciughe e le sarde salate nelle zone di mare): questi contenitori a seconda della grandezza, prendono il nome più generico di stipiceddi, stipi, stipuni. Lo stesso avviene per la "quartare: u ugghialuoru o stipa è una quartara smaltata da 12 litri con la bocca stretta e con le labbra tipo lumera, serviva per l'olio; quella da 6 litri si chiamava minzalora, da tre trizzalora (veniva usata anche per conservare l'ariu per la ricotta); una variante è un'altra stipa anch'essa da 12 litri, con la bocca larga per infilarvi le mani e prendere le olive in salamoia; a lumera, lucerna ad olio, con o senza piede; u fiancottu" p'o strattu ce ne sono di due tipi: quello classico, con la falda bassa che serviva per asciugare u strattu, l'altro, con il bordo alto, veniva usato a tavola come unico e grande piatto dal quale, la sera, al desinare, tutti i componenti della famiglia attingevano con vibranti forchettate; a daugghia e a daugghiedda, piccole terrecotte bianche non smaltate per mantenere fresca l'acqua: nella pancia veniva praticato un foro per bere a garganella. Infine le giare, bianche, grandi, introvabili.

Quando il mercato locale e turistico ha incominciato a richiedere con insistenza terrecotte di questo ultimo tipo, Giliberto è stato "costretto" a intraprendere una nuova ricerca, questa volta indirizzata a trovare vecchi ceramisti siciliani attrezzati di grandi fornaci a legna. Niente da fare. Questo tipo di fornaci, in Sicilia, sono diventate dei ruderi obsoleti già una trentina di anni fa, soppiantati dai nuovi sistemi. Rivolgersi altrove. Il nostro Paolo non demorde. Carico di modelli e di consunte foto di terrecotte nostrane è partito in Nordafrica alla ricerca di arcaiche fornaci ancora in funzione. Le ha trovate presso una tribù di Berberi, una etnìa ormai largamente meticciata con gli Arabi, amante del tè e del "Couscous". Costoro lavorano ancora la terracotta con sistemi primordiali. Giliberto è stato con loro per diverse settimane e, a più riprese e assieme a loro ha modellato le prime forme delle nostre grandi giare tradizionali, da esportare in Sicilia, nel nostro altipiano.    

Tra i Berberi del Nordafrica

Nella zona sono diffuse, simili ad alveari, delle cave inesauribili di argilla di origine millenaria. Si scende a lume di candela e a piedi scalzi attraverso stretti cunicoli per arrivare ad oltre 100 m di profondità. L'argilla estratta si riporta in superfice a spalla, dentro "coffe" di palma; poi viene trasportata su asini e carretti nei vicini laboratori. Qui le zolle vengono frantumate con delle mazzette di legno d'ulivo e poi messe a bagno in acqua dentro fosse scavate a terra; quindi viene scaniata, a piedi nudi prima e con le mani dopo, per renderla omogenea, elastica e pronta al tornio.

I laboratori, circa una cinquantina, sono postazioni interrate, fresche, contigue l'una all'altra, di epoca   antichissima, con delle porticine rivolte verso sud per sfruttare la luce naturale dalla mattina alla sera, coperte con travi ricavate dai fusti di palma tagliati a metà e poggianti su pilastri ed archi rudimentali. Uno spesso strato di sabbia copre le travi e allo stesso tempo rende calpestabile il tetto; inoltre non fa penetrare il calore all'interno, consentendo ai manufatti di asciugare molto lentamente.

La costruzione delle giare di grande pezzatura avviene con la tecnica tradizionale del metodo a strisce, detto "a colombino". Si preparano dei rotoli di argilla e uno alla volta si sovrappongono a spirale sul tornio ottenendo così il primo pezzo che si mette ad asciugare. Appena è asciutto si riporta sul tornio a pedale e si innesta il secondo pezzo e poi il terzo, e così via a seconda del volume del manufatto.

Quando la giara è pronta, prima della cottura, si passa alle decorazioni sulla superfice mediante solchi e graffiti semplici o a zig-zag, praticati con stecche di legno o pezzi di pettine, aggiungendo per ultimo un cordoncino preparato separatamente che si schiaccia ad ogni cm con la semplice pressione del dito.

Nel momento in cui le terrecotte sono asciutte si passa all'“infornaciatura”; quest’ultima operazione richiede una maestrìa particolare in quanto bisogna saper dosare la gradazione del calore (che può arrivare fino a 1000 gradi) a seconda delle fasi della cottura. Ci vogliono ore e ore di "gran fuoco" ed enormi cataste di legna e fascine. Il tipo di forno e il calore sapientemente regolato danno il repertorio cromatico richiesto e la giusta porosità del prodotto. Questo era il segreto dei vecchi ceramisti siciliani oggi non più operanti, e questo è il segreto dei Berberi del Nordafrica a cui Paolo Giliberto si è rivolto per riconsegnare all'Altipiano Ibleo le bianche terrecotte di una volta.

 

  IL CORRIERE DEGLI IBLEI, aprile 1997

1 commento:

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