«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Il Corso: le attività lavorative negli anni ‘50 -‘60 e dintorni


Il civico 13 ospitava occasionalmente spettacoli e balletti di sciantose che facevano divertire adulti e vitelloni...

Continuiamo con il comporre il frastagliato mosaico (probabilmente non scevro di inesattezze) degli esercizi commerciali e artigianali relativo agli anni ’50, ’60, un’epoca che oggi appare lontanissima, obsoleta, per via della rapidità dei cambiamenti in tutti i campi.
Era un tempo in cui esisteva la “cultura” del lavoro. Si lavorava volentieri e sodo, in un clima di serenità e di bonomia; l’artigianato tirava, ed era in uso tramandare di padre in figlio la bottega e  il mestiere, anzi l'arte; i negozi erano quasi tutti a gestione familiare. L’osservanza dell’orario di lavoro era elastica per eccesso, in villeggiatura si andava soprattutto quando si era ammalati (il cambiamento d’aria era una panacea per qualsiasi patologia), i ponti erano pressoché sconosciuti e anche le settimane bianche… o di altro colore. Ci si conosceva tutti e i rapporti interpersonali erano coltivati al massimo grado: si partecipava col cuore alle vicende di ognuno, tristi o liete che fossero. Poi esplose il miracolo economico.
Questo modestissimo contributo è uno dei tanti background che assieme a tanti altri vuole contribuire a tessere quella “grande tela” a cui abbiamo accennato nello scorso numero. Questa volta tocca ai numeri civici dispari del Corso. 

NEGOZI BOTTEGHE E MAESTRANZE
Don Pippinu Tabacco, con l’inseparabile toscano, era un uomo corpulento ed energico. Nella sua piccola vetrina di macellaio al n. 1 del Corso, in inverno non mancavano mai “corde” di salsiccia, “corde” di saimi bianchissima, piatti di gelatina. Lo stesso dicasi per la macelleria dei “Pulli” al n. 3. Dentro, una vera sangarìa: porzioni di vitello e di vacche, mezzine di porco, agnellini da latte sventrati che ti guardavano con certi occhi.
Al n. 7, prima che diventasse “Anapo Bar” e quindi ristorante “da Nunzio”, si vendeva cerasuolo di Vittoria e zibibbo. Il bar “Anapo”, con sala ristorante nel mezzanino, fece epoca ai suoi tempi per eleganza ed originalità. Una porchetta arrosto con il classico mezzo limone in bocca, dietro la porta-vetrina, fu la trovata per il lancio del locale nuovo di zecca. Al n. 9 c’era la trattoria di don Mmastinu Badoglio ,Gallo, (l’aveva preceduto la modista Bologna specializzata in cappelli da donna). Nella credenza a vetri non mancavano mai gli arancini ordinati a piramide. Al n. 11 il salone “Eden” di Sebastiano Caligiore (u succarmunu), poi il salone “Trieste” di Pippinu Larosa (u iattu ca scocca), poi il negozio di confezioni ed abiti da sposa gestito da Giuffrida e dalla moglie (a Pupa).
Il civico 13 ospitava occasionalmente spettacoli e balletti di sciantose che facevano divertire adulti e vitelloni. Poi vi si insediò l’ufficio dell’impresa Guarino; in seguito vi passò il salone “Trieste”: nei nuovi locali “esordì” la poltrona con il cavallino per i clienti bambini. Dietro la porta a vetri facevano bella mostra i calendarietti profumati con le donnine nude e con il classico ciuffetto destinato ad uscire dalle pieghe del portafogli. Al civico 15, c’era don Gatanu u curtuliddu (Rizza): era concessionario della Barbisio, e, oltre ai cappelli, vendeva pullover, camicie, ombrelli, profumi. La brillantina si vendeva sfusa: sul banco, a sinistra, c’era una grande latta con un piccolo rubinetto, un piccolo imbuto, i misurini; la boccettina si portava da casa. Trasferitosi don Gatanu al n. 22, fu rimpiazzato da Paolo Casamichele con la “Casa del bambino”. Più tardi arrivò Paolo Calabrese (Scalabrinu) con la sua sala da barba.
Al 17, operava il caffè “Pino”, gestito da Giuseppe Pino in società con il cognato Francesco Blancato (nel 1950 un caffè costava 23 lire, 35 lire nel 1958; per un cono gelato si potevano spendere da 5 a 30 lire). La sera del giovedì e del sabato in occasione di “Lascia o raddoppia?” e de “Il Musichiere” la sala del bar si trasformava in sala Tv con consumazione obbligatoria. Trasferitosi il caffè “Blancato” (già “Pino”) in piazza del Popolo, nei locali fu impiantato il primo supermercato di Palazzolo con annessa macelleria. I titolari erano Casamichele e Rapisarda, quest’ultimo venditore di bilance. Durò poco. Gli subentrò il ristorante di Filippo Scarpetta (Pannuzzo) e poi  l’autosalone “Bonaiuto”. Al n. 21 c’era una volta… il Circolo dei Nobili. Il sodalizio, fondato l’11 giugno del 1882, si trasferì al n. 21 del Corso nel mese di maggio del 1930 e lì è rimasto per ben 73 anni, fino all’agosto del 2003.
Al 23 c’era Menu u caliaru che vendeva, appunto, calacausi e simenza. Poi fu aperta una salumeria. Al 25 e al 27 si piazzò Gionfriddo con il Butangas, poi arrivò Velasco con lane e magliette, quindi il tabaccaio don Turiddu Cappellani, Paolo Nitto, e dopo la “Smacchialampo” con le sorelle Cinquotta. Al 31 e 33 lavorava la modista Alì, con in vetrina guanti di Svezia, cappelli e velette, manicotti. Poi i cappelli da donna si usarono solo per le cerimonie e il negozio di modista diventò negozio di fiori (Boccaccio). Al n. 35 c’era la sartoria di don Emilio Mazzeo. Al 39 don Paolinu Curaddu con laboratorio e vendita di scarpe e scarpine di manifattura. Poi, don Mmicinzinu Bologna, con il sorriso dal dente d’oro e gentile e garbato con tutti, avviò una salsamenteria. All’odore della suola e delle scarpe subentrarono ben altri odori, inebrianti e pervadenti: giggiolena, liquirizie, noce moscata, mortadella, acciughe, formaggi, sapone di casa (te lo tagliava a vista, con una corda di chitarra). Partito don Mmicinzinu per gli USA, gli subentrò Ferla, poi don Angelino Trigila, infine Tanu Fucale, ma durò ben poco. 
Al 41 la merceria-libreria Buccheri. Al 43 le assicurazioni “Generali” di Paolo Zaffarano. Al 45 Paolo Materazzo con negozio di calzature. Al 47 il ristorante “Lo Bello”. Al 49, all’angolo con via Maddalena, c’era l’abbigliamento profumeria di Paolo Carta. Vendeva cappelli, panama, pagliette, camice e cravatte, e, anche lui, brillantina sfusa. Il negozio fu poi rilevato dal sarto Morelli che continuò a fare il sarto e a portare avanti l’attività commerciale.   
La preoccupazione più grande di Filamecci, falegname al n. 51, era quando pioveva: l’acqua che scendeva da “Palazzo” entrava tutta nella sua bottega, sottomessa rispetto al piano del Corso. Al 53 il negozio di Salvatore Pricone: suola e pellame. Poi subentrò Gionfriddo con il Butangas e poi Paolo Lacarrubba con l’Agipgas. Al n. 55 Giuseppe Pricone, figlio di Salvatore, con il suo negozio di calzature. Al 57 Salvatore Curcio, professore di lettere e agente del Pibigas (un elicottero atterrato al piazzale Marconi fece un sensazionale lancio pubblicitario), quindi il negozio di radio tv di Casaccio e socio. Al 61 il barbiere Paolo Fazzino (Pipiddu).
Ai civici 63 e 65 c’erano i “Costa”: mobili ed oggetti da regalo. Il negozio era caratterizzato da una serie di vetrine esterne color verde persiana dove erano esposti articoli di gusto e di pregio. Al 67 c’era la sartoria di don Paulinu u Bellu (Lo Bello), poi subentrò la bottega di generi alimentari della  Rausana  e poi il Posto telefonico pubblico. Don Paulino u Bellu, dai denti piccoli e gialli, era di grande spirito:Vossia unni u porta u distrubbu?”, era la sua domanda di rito quando gli si presentava un nuovo cliente per la misura dei pantaloni (di regola, il “malloppo” si orienta tutto a sinistra).    
Al 69 l’agenzia Singer e poi l’ufficio della federazione prov.le “Coltivatori diretti”. Al n. 81 c’era il Salone Infantino, poi il Salone Tinè, quindi il negozio di Abbigliamento (la Rinascente) gestito dalla moglie di quest’ultimo. Al n. 85 c’era don Mariano Infantino, maestro calzolaio, poi gli subentrò Paolo Casamichele con radio e Tv, quindi  arrivò Enzo Belfiore, sarto. Al n. 87, oggi macelleria Colosa, c’era il sarto Paolo Infantino. Al n. 95 una piccola bottega di alimentari portata avanti dalla iatta morta (Lantieri) e in seguito la merceria gestita dalla signora Lombardo. Al 99 a Sarausanedda (Teodoro), una merceria che vendeva pure suole e pellame. Nel negozio campeggiava una mastodontica Singer per impunturare scarpe e borse.


Il Corriere degli Iblei, aprile 2005

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