«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Colera e altre epidemie nei secoli scorsi

“Iarditi pagghia e mittiti jagghia! Il Governo ci avvelena!”


PALAZZOLO. Quando una malattia contagiosa si diffonde rapidamente in un determinato territorio si parla di epidemia. Oggi grazie ai vaccini e a terapie a base di penicillina molte infezioni di questo tipo, se prese in tempo, possono essere debellate in via definitiva. Una volta invece erano quasi sempre letali e inevitabilmente seguite da gravi carestie.

Queste calamità, anche se ritenute punizioni divine contro i peccatori, non raggiungevano lo scopo di far cambiare i comportamenti e abitudini non consoni alla morale cristiana. Le privazioni, la fame, la paura dei contagi quasi sempre, invece di redimere, producevano l’effetto di imbarbarire gli animi per la sopravvivenza a qualsiasi costo: mors tua, vita mea.

Il Colera
Il colera è una infezione intestinale contagiosa caratterizzata da vomito, diarrea, (scoppa di bottu vòmitu e diarria, scriveva un poeta popolare), crampi muscolari, collasso terminale.A causa delle precarie condizioni igieniche nel 1800 in Europa si ebbero ben otto epidemie coleriche. In Italia se ne registrarono sette. Le più gravi furono nel 1837, nel 1855 e nel 1867, soprattutto nel Meridione, per via del degrado delle condizioni igieniche e per le carenze delle strutture sanitarie.
Nel 1837, in pieno Risorgimento, il popolo siciliano credeva che il colera venisse propagato dai sicari di Ferdinando II (re Bomba) per decimare le popolazioni isolane. Il contagio partì da Palermo e una dopo l’altra colpì le città siciliane. In provincia di Noto (nel 1837 Noto era capoluogo del Vallo) i morti superarono le settemila unità. I comuni maggiormente colpiti furono: Rosolini, Pachino, Avola e Siracusa.
Malgrado il cordone sanitario istituito nei comuni, il “mortifero vomito orientale” si diffondeva sempre più, la gente aveva paura e bastava un piccolo sospetto per cadere vittima della ferocia popolare. Il popolo credeva che il colera fosse causato da un veleno sparso dagli sbirri borbonici nelle acque potabili e nell’aria. A Canicattini, dopo il primo caso (88 vittime in tutto), si diffuse il seguente tormentone: “Iarditi pagghia e mittiti jagghia! Il Governo ci avvelena!”
A cavallo tra il 1854 e il 1855 arriva il “grande colera”. I comuni della provincia di Noto “travagliati dal flagello dominante sono a loro volta in difficoltà per le spese per la pubblica salute”. Riguardo Palazzolo, scrive Nicolò Zocco: “Ai mali arrecati dalle violente commozioni popolari… si aggiunsero i flagelli del Cielo… Il doloroso avvenimento del 1855 ci sta ancora scolpito nel cuore… Palazzolo colpito dal colera-morbus…Si moriva alla rinfusa in ogni luogo, e la campagna era sparsa da improvvisate sepolture…”. Le polveri pestilenziali le “spargevano”, secondo la credulità popolare, sempre le autorità politiche. A Palazzolo, ad essere accusato fu addirittura il Vescovo di Noto, che “venuto alla ricorrenza della festività di San Paolo, lasciò fama di avere per il primo disseminato il veleno…”.
Una terza epidemia di colera si registra nel 1867. A luglio si hanno le prime avvisaglie e a Siracusa il 19 si registra la prima vittima: una ragazza di 13 anni. Due giorni prima a Catania erano morte ben 600 persone.
Inizia di conseguenza una massiccia evacuazione verso le campagne. A Palazzolo per ognuno dei quattro quartieri viene ingaggiato un medico, un flebotomo, un cappellano e dei becchini a seconda delle necessità; il convento dei Minori Osservanti viene adibito a lazzaretto; le persone sospette e i gendarmi vengono sottoposti a fumigazioni chimiche; dai posti di guardia si transita solo se si è muniti di lasciapassare.                                                                                                          Da Siracusa, Lentini, Vizzini, Buccheri, Modica, Ispica, Sortino arrivano pesanti notizie di decessi. Nel nostro paese nei primi di ottobre muoiono dalle 15 alle 20 persone al giorno e in un giorno pare che si siano contate addirittura 92 vittime. Finalmente il 10 novembre, cessata l'epidemia in quasi tutti i posti si toglie il cordone sanitario. 

La Peste
Come il colera, anche le pestilenze erano abbastanza ricorrenti e, rapide come il fuoco, distruggevano intere popolazioni. A proposito della grande pestilenza del 1348, Francesco Petrarca così scriveva ad un amico: “Che dire? Donde incominciare? Dove rivolgermi? Ovunque dolore! Ovunque terrore! Volesse il cielo che non fossi mai nato…”.
Nel 1575 e nel 1576 a Palermo e in tante altre città della Sicilia vi fu una grande epidemia. Il Protofisico del Regno di Sicilia per evitare la diffusione del contagio, fra le altre misure, sospese le fiere del bestiame. A Palazzolo l’antica fiera dell’Assunta, a “Palazzo”, fu sospesa per tre anni. Nel 1624 una nuova epidemia provoca a Palermo 100 morti al giorno. Preghiere, invocazioni, pentimenti. Poi in una grotta vengono trovate le ossa della patrona S. Rosalia e termina il flagello.
Per la peste del 1630 a Milano, scrive Manzoni: “…le strade un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti…”. Un vecchio entra nella chiesa di S. Antonio a Milano e appena spolvera la panca con il mantello viene scambiato per untore: - ‘Quel vecchio unge la panche’ gridarono a una voce alcune donne… la gente che si trovava in chiesa fu addosso al vecchio -. E finalmente dopo una imponente processione guidata dall’arcivescovo S. Carlo Borromeo la peste incominciò a scemare fino a quando scomparve.   
Una plastica descrizione, a proposito delle pestilenze la fa il nostro Alessandro Italia nella sua Sicilia feudale: “... la folla a placare l’ira divina si riversava nelle chiese. Le donne scalze e scarmigliate, gli uomini senza armi e coperti di cenere si prostravano, si battevano coi cilici…”. La chiesa in ogni caso rimaneva sempre un punto di riferimento per tutti.

La Malaria
Giovanni Verga nella novella “Malaria” (1881) racconta dell’oste che si dispera dopo aver perso a causa della malaria ben cinque figli: “Il lago vi da e il lago vi piglia!” gli diceva Nanni, vedendo piangere di nascosto compare Carmine -. Il lago in questione è naturalmente il Biviere di Lentini, il grande bacino lacustre prossimo all’abitato, bonificato poi assieme alla Piana di Catania.
Anche il nostro territorio fu interessato alla malaria (a Palazzolo ancora fino ai primi anni ’50 si verificarono alcuni casi), soprattutto nelle contrade di Benisiti, Ciurca, Furmica Montesano, Mucìa, tutte quelle aree in cui  più o meno insistevano il fiume Bianco e il Tellàro.
La malaria è anch’essa una malattia epidemica. E’ causata da una zanzara del tipo anofele e si manifesta con violenti accessi febbrili ricorrenti, gonfiore al fegato e all’addome, e molte volte ha esito fatale per mancanza di terapia appropriata. Si curava (inutilmente) con solfato e decotti di eucalipto, poi con il Chinino di Stato in vendita dai tabaccai; in seguito con il cloridrato di chinino. La misura più importante, però, non era la terapia ma l’eliminazione delle zanzare, sia per mezzo del DDT, sia con opportune opere di bonifica delle zone umide malsane.
 A partire dagli anni ’30, grazie alla legge del 23 dicembre 1923, in Italia iniziò il risanamento delle aree interessate. Anche in provincia di Siracusa si costituirono appositi Consorzi per “iniziare questa doverosa opera di redenzione delle terre malariche”.
Dal 1950 circa, la malaria non è più presente in quasi nessuna regione d'Europa. Continua, invece, a rappresentare un grave problema sanitario per le zone più umide e paludose dell'Africa e del Sud est asiatico.

IL CORRIERE DEGLI IBLEI, marzo 2007

1 commento:

muscolino giovanni ha detto...

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